giovedì 3 settembre 2015

101 perchè sulla storia di Milano che non puoi non sapere


Oggi esce la ristampa del libro su Milano 101 perché sulla storia di Milano che non puoi non sapere che ho scritto insieme a Giuliano Pavone sulla mia città. Edito da Newton Compton

Qui sotto metto il testo del numero 101, quello che chiude il libro e riguarda la mia esperienza con l'Istituto dei Tumori di Milano. 


101. Perché a Milano si può tornare a vivere


In via Venezian, nel 1925, iniziò la storia dell’Istituto nazionale per la cura e lo studio dei tumori. Il fauto­re dell’iniziativa, dopo aver già fondato l’università, fu il sindaco di Milano Luigi Mangiagalli, un medico illuminato. Il progetto fu finanziato, incoraggiato e so­stenuto dalla borghesia milanese del tempo e dal «Cor­riere della Sera» del direttore Luigi Albertini.
Il legame con la città fu immediatamente forte.
Durante il consiglio comunale del gennaio 1925 il sindaco sottolineò l’importanza, per la città, di dotarsi di un centro all’avanguardia per lo studio dei tumori. Fu così deliberata la costruzione di un nuovo ospedale che venne intitolato al re Vittorio Emanuele iii. Da quel momento non si è mai smesso di affrontare il cancro con l’obiettivo di curarlo, di batterlo. A qualunque costo, come fece Pietro Rondoni, il direttore di quel luogo di cura, durante il periodo dell’occupazione nazista. Le ss si presentarono in via Venezian per sequestrare il radium (il metallo scoperto da Marie Curie) utilizzato per curare il cancro. Il dottore ne aveva nascosto una quantità, che serviva alla ricerca, nella cassetta di sicurezza di una banca. Al cospetto dei tedeschi si mise a parlare nella loro lingua, prese tempo, ma poi fu portato al comando. Alla fine, però, salvò il prezioso metallo.
Le storie dell’Istituto sono tantissime, una per ogni pa­ziente curato in questo centro e una per ogni persona che vi lavora. In tempi recenti, una rivista americana ha sentenziato che Milano sarebbe stata conosciuta nel mondo non solo per la Scala ma anche per l’Istituto dei tumori.
Entrarci e vedere pazienti e medici coalizzati per il rag­giungimento dell’obiettivo è un’esperienza per l’anima.
A questa struttura devo la mia vita. Mi sono accorto dopo un intervento alla testa di avere un cancro del sangue che attacca il midollo osseo (mieloma). Il vetrino prima e l’esame istologico poi non hanno lasciato alcun dubbio. Per un po’ non è successo niente, in seguito, in uno dei controlli periodici, i valori del sangue sono impazziti. È a quel punto che mi presentai nel reparto di Ematologia con una diagnosi pesantissima, e poche e disordinate informazioni sulle cure. Le percentuali di guarigione mettevano i brividi.
Iniziò così il mio rapporto con l’Istituto. Ci sono tornato decine e decine di volte, e in ogni occasione c’è sempre stato chi mi ha seguito con attenzione e professionalità. Ma ho trovato anche qualcosa di più: la passione di chi mi curava. Sono stato ricoverato spesso, anche per i due autotrapianti e per il trapianto da donatore non consan­guineo di midollo osseo. Il protocollo della cura è molto lungo e faticoso. Per fortuna ho avuto subito i farmaci intelligenti, quelli in grado di curarmi senza affaticare il midollo. Per il trapianto da donatore la procedura è stata molto complessa; in America, a un donatore ano­nimo (che mi ha salvato la vita), sono state prelevate le cellule staminali emopoietiche. Appena dopo il pre­lievo, un corriere è partito dall’ospedale del Minnesota con destinazione via Venezian. Aerei, aereoporti, metal detector e una sacca, la sacca della vita hanno com­piuto un lungo tragitto. Arrivata in ospedale, la sacca è stata analizzata e poi attaccata al tubo. Io ero stato condizionato (si dice così) con una chemio ad alte dosi. Tutto andava spazzato via. Ero in una stanza sterile as­solutamente priva di contatti con l’esterno. Il cibo era sigillato, gli infermieri potevano entrare solo con le ma­scherine e i parenti uno alla volta. Ero debolissimo e in più non potevo vedere mio figlio, nato da pochi mesi: arrivato durante le terapie, ha dato un motivo in più, a me e a mia moglie, per andare avanti.
In tanti anni di frequentazione ho visto storie durissime, alcune finite bene, altre finite e basta. Ho imparato che siamo artefici del nostro destino sino a un certo punto, ho imparato a distinguere la pochezza umana dal cuore di chi patisce la malattia. A farmi più impressione di tutto è stata la pediatria oncologica, reparto di super eccellenza dell’Istituto, come quello dove sono in cura io. I bimbi pallidi e senza capelli ti fanno piangere solo a pensarci. Ma i piccoli guerrieri spesso ce la fanno.
L’ambulatorio è sempre pieno di persone, di pazienti e di parenti dei pazienti. Tutti aspettano il loro turno per sapere se hanno risposto alla terapia – e avere una ras­sicurazione – oppure apprendere di una situazione dif­ficile. La forza per resistere viene da dentro, e non te la insegna nessuno. A sopravvivere all’inferno si impara, e si prova a uscirne. Non ci sono corsi di motivazione, di autostima, non c’è bisogno di camminare sui carbo­ni ardenti. Basta andare all’Istituto a vedere chi soffre. Uomini, donne, bimbi, giovani, anziani: tutti lottano. Quello che mi è successo poteva accadere a chiunque, mentre quello che è stato fatto per me (e per tutti gli altri malati) è impossibile da dimenticare. Nel bene e nel male. Dopo ottant’anni l’Istituto è là a rassicurarci.
Per me è stato bellissimo poter partecipare allo spot per la raccolta del 5x1000 e portare la mia testimonianza.

Sofferenza, gioia, pazienza, stima, amicizia sono senti­menti, per dirla con Dante, «che ’ntender no la può chi no la prova».

GRAZIE A TUTTI
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