Oggi esce la ristampa del libro su Milano 101 perché sulla storia di Milano che non puoi non sapere che ho scritto insieme a Giuliano Pavone sulla mia città. Edito da Newton Compton
Qui sotto metto il testo del numero 101, quello che chiude il libro e riguarda la mia esperienza con l'Istituto dei Tumori di Milano.
101. Perché a Milano si può tornare a vivere
In via Venezian, nel 1925, iniziò la storia dell’Istituto nazionale
per la cura e lo studio dei tumori. Il fautore dell’iniziativa, dopo aver già
fondato l’università, fu il sindaco di Milano Luigi Mangiagalli, un medico
illuminato. Il progetto fu finanziato, incoraggiato e sostenuto dalla
borghesia milanese del tempo e dal «Corriere della Sera» del direttore Luigi
Albertini.
Il legame con la città fu immediatamente forte.
Durante il consiglio comunale del gennaio 1925 il sindaco sottolineò
l’importanza, per la città, di dotarsi di un centro all’avanguardia per lo
studio dei tumori. Fu così deliberata la costruzione di un nuovo ospedale che
venne intitolato al re Vittorio Emanuele iii. Da quel momento non si è mai smesso di affrontare il cancro con
l’obiettivo di curarlo, di batterlo. A qualunque costo, come fece Pietro
Rondoni, il direttore di quel luogo di cura, durante il periodo
dell’occupazione nazista. Le ss si presentarono in via Venezian per sequestrare il radium (il metallo
scoperto da Marie Curie) utilizzato per curare il cancro. Il dottore ne aveva
nascosto una quantità, che serviva alla ricerca, nella cassetta di sicurezza di
una banca. Al cospetto dei tedeschi si mise a parlare nella loro lingua, prese
tempo, ma poi fu portato al comando. Alla fine, però, salvò il prezioso
metallo.
Le storie dell’Istituto sono tantissime, una per ogni paziente curato
in questo centro e una per ogni persona che vi lavora. In tempi recenti, una
rivista americana ha sentenziato che Milano sarebbe stata conosciuta nel mondo
non solo per la Scala ma anche per l’Istituto dei tumori.
Entrarci e vedere pazienti e medici coalizzati per il raggiungimento
dell’obiettivo è un’esperienza per l’anima.
A questa struttura devo la mia vita. Mi sono accorto dopo un intervento
alla testa di avere un cancro del sangue che attacca il midollo osseo
(mieloma). Il vetrino prima e l’esame istologico poi non hanno lasciato alcun
dubbio. Per un po’ non è successo niente, in seguito, in uno dei controlli
periodici, i valori del sangue sono impazziti. È a quel punto che mi presentai
nel reparto di Ematologia con una diagnosi pesantissima, e poche e disordinate
informazioni sulle cure. Le percentuali di guarigione mettevano i brividi.
Iniziò così il mio rapporto con l’Istituto. Ci sono tornato decine e
decine di volte, e in ogni occasione c’è sempre stato chi mi ha seguito con
attenzione e professionalità. Ma ho trovato anche qualcosa di più: la passione
di chi mi curava. Sono stato ricoverato spesso, anche per i due autotrapianti e
per il trapianto da donatore non consanguineo di midollo osseo. Il protocollo
della cura è molto lungo e faticoso. Per fortuna ho avuto subito i farmaci
intelligenti, quelli in grado di curarmi senza affaticare il midollo. Per il
trapianto da donatore la procedura è stata molto complessa; in America, a un
donatore anonimo (che mi ha salvato la vita), sono state prelevate le cellule
staminali emopoietiche. Appena dopo il prelievo, un corriere è partito
dall’ospedale del Minnesota con destinazione via Venezian. Aerei, aereoporti,
metal detector e una sacca, la sacca della vita hanno compiuto un lungo
tragitto. Arrivata in ospedale, la sacca è stata analizzata e poi attaccata al
tubo. Io ero stato condizionato (si dice così) con una chemio ad alte dosi. Tutto
andava spazzato via. Ero in una stanza sterile assolutamente priva di contatti
con l’esterno. Il cibo era sigillato, gli infermieri potevano entrare solo con
le mascherine e i parenti uno alla volta. Ero debolissimo e in più non potevo
vedere mio figlio, nato da pochi mesi: arrivato durante le terapie, ha dato un
motivo in più, a me e a mia moglie, per andare avanti.
In tanti anni di frequentazione ho visto storie durissime, alcune
finite bene, altre finite e basta. Ho imparato che siamo artefici del nostro
destino sino a un certo punto, ho imparato a distinguere la pochezza umana dal
cuore di chi patisce la malattia. A farmi più impressione di tutto è stata la
pediatria oncologica, reparto di super eccellenza dell’Istituto, come quello
dove sono in cura io. I bimbi pallidi e senza capelli ti fanno piangere solo a
pensarci. Ma i piccoli guerrieri spesso ce la fanno.
L’ambulatorio è sempre pieno di persone, di pazienti e di parenti dei
pazienti. Tutti aspettano il loro turno per sapere se hanno risposto alla
terapia – e avere una rassicurazione – oppure apprendere di una situazione difficile.
La forza per resistere viene da dentro, e non te la insegna nessuno. A
sopravvivere all’inferno si impara, e si prova a uscirne. Non ci sono corsi di
motivazione, di autostima, non c’è bisogno di camminare sui carboni ardenti.
Basta andare all’Istituto a vedere chi soffre. Uomini, donne, bimbi, giovani,
anziani: tutti lottano. Quello che mi è successo poteva accadere a chiunque,
mentre quello che è stato fatto per me (e per tutti gli altri malati) è
impossibile da dimenticare. Nel bene e nel male. Dopo ottant’anni l’Istituto è
là a rassicurarci.
Per me è stato bellissimo poter partecipare allo spot per la raccolta
del 5x1000 e portare la mia testimonianza.
Sofferenza, gioia, pazienza, stima, amicizia sono sentimenti, per dirla
con Dante, «che ’ntender no la può chi no la prova».
GRAZIE A TUTTI
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