venerdì 20 dicembre 2019

Non ci si abitua mai

Per me Natale arriva sempre qualche giorno prima del 25 dicembre. 
È il giorno in cui faccio la visita per il controllo del mieloma.
Il regalo è la remissione completa, la migliore notizia che si possa dare a un malato oncologico attuale o passato. 
Sto bene e sentirmelo dire dal medico mi ha rinfrancato.

Nel momento in cui ho in mano tutti i documenti (referto, esami, impegnative, ricette) sgombro la mente dalle incrostazioni quotidiane, quelle del pressappochismo, quelle dell'avidità, quelle di chi pensa solo a se stesso, quella di chi sente vicino a Dio; quella di chi, per sua fortuna, non si è trovato a doversi confrontare con il cancro.

Metto in fila tutto e rifaccio i conti con il trapianto, con il donatore e la sua generosità disinteressata, e con tutta l'atmosfera che è girata intorno a me (medici, infermieri, amici e famiglia), il mio cerchio magico, quello che mi ha difeso e accompagnato lungo tutto il lungo percorso delle cure e del follow up.

Le differenze, tra le due tipologie di persone, le ho sentite sulla mia pelle.

A questo giro sono arrivato stanchissimo e inquieto, con l'ansia che si è spesso impadronita del mio respiro e del mio sonno. E' un miscuglio feroce di sensazioni, parole, silenzi che ti fanno sentire sempre fuori posto , al lavoro, mentre guidi, in ospedale,
e non sai il perché.
Non ci sia abitua mai al fatto di dover fare esami e visita; li ho fatti centinaia di volte e ogni volta è diversa dalla precedente. 
Conosco ogni centimetro della sala prelievi, della sala d'aspetto, dell'ambulatorio, del reparto dove sono stato ricoverato, degli ascensori, del bar, dei corridoi, dei gradini, dei manifesti affissi, ma anche dei volti delle persone che lavorano all'Istituto.
Tutto mi è famigliare, ma tutto ogni volta cambia, il cambiamento lo detta il mio stato d'animo.
Ogni volta è come se ricominciassi daccapo anche se, dopo aver visto le analisi, so già che la visita non mi sorprenderà, ma nonostante questo c'è sempre quello stato di allerta permanente che mi accompagna in ogni momento della mia vita, controllo o non controllo che sia. 

Prima di entrare nella stanza delle visite sono passato a lasciare una scatola di cioccolato (è una tradizione) in reparto e lì ho incontrato gli infermieri e una collaboratrice del primario. Ho abbracciato e baciato tutti con grande calore. Loro sono un pezzo della mia vita; un pezzo che, come la tessera di un mosaico, ha abbellito momenti di enorme difficoltà.
Sono poi passato dalla sala di attesa, dove la mia storia si intreccia con quella degli altri pazienti che aspettano di sapere com'è andata. 

Infine è toccato a me entrare nell'ambulatorio, questa volta ad accogliermi non c'era mio "fratello" dottor V. com'è successo negli ultimi quasi quindici anni. 
Ho trovato il volto rassicurante della dottoressa G., quasi imbarazzata a dovermi dire che il dottor V. avrebbe cambiato ospedale. L'ho rassicurata -per quanto un paziente possa rassicurare un medico- dicendole che sapevo già tutto. Il clima è stato da subito disteso.

Tutto si è svolto delicatamente, sono stato ascoltato e rassicurato a mia volta; ho avuto la sensazione di conoscerla da sempre (una volta ci eravamo incrociati perché mi aveva fatto il prelievo per la BOM).

Al momento di salutarci non ci siamo abbracciati perché ancora questa confidenza non ce l'ho.
Sono invece sicuro che abbraccerò con forza e con qualche lacrima il dottor V. non appena lo vedrò. Lui è stato (e continua a essere, sia chiaro) una delle persone più importanti della mia vita (che mi ha salvato proprio lui). E' stato una delle persone che mi ha fatto avvicinare alla felicità.

Ho salutato Vittorio, mio fratello, mio dottore,mia guida nel turbine della malattia, mio amico. L'ho abbracciato fortissimo con il magone e lui, come sempre, mi ha incoraggiato.  L'ho lasciato donandogli il libro di Oliver Sacks Gratitudine, la stessa che provo nei suoi confronti. Per lui spero tutto il meglio possibile. Mi mancherà, ma so che lo rincontrerò sicuramente.



Grazie a tutti
Salute e pace
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“La miglior vendetta? La felicità. Non c'è niente che faccia più impazzire la gente che vederti felice.”
Alda Merini



sabato 25 maggio 2019

Il calendario dei sentimenti



Ancora una volta si è compiuto il rito del controllo, non so nemmeno più a che numero di visite sono arrivato, sicuramente però stiamo parlando, considerando anche gli esami, di centinaia di ingressi nei vari ospedali.
Ogni volta è diverso, sia se devo vedere un medico o fare delle analisi di routine sia se devo affrontare qualcosa di nuovo.

Entrambe queste esperienze mi sono ricapitate in questi ultimi giorni. Ho avuto un problema a un labbro, niente di preoccupante, però sono dovuto andare di nuovo in ospedale per rimuoverla. E così dottori, attese, timori. E punti, quelli che mi hanno messo sulla bocca.
A questo inconveniente si sono sommati gli esami per il controllo. Ho avuto un intenso dentro e fuori da via Venezian. Ormai conosco le regole, è come per la matematica, la formula per l'area del triangolo non la dimentichi mai, allo stesso modo ti ricordi di prendere il numero, di presentare l'impegnativa, di fornire la tessera sanitaria. Su ogni documento è segnato chi siamo e su ogni documento il codice per l'esenzione ci ricorda la patologia: #048.

E' andato tutto bene. E sono felice per questa remissione completa che continua ad accompagnarmi, fortunatamente, da tanti anni.

In corrispondenza di ogni controllo approfondisco quella che è una specie di filosofia del mieloma.
Naturalmente sono felice di stare bene, però mi chiedo anche come mai ci sono tante persone che, seppur stando bene, sono infelici. È strano, non c'è bisogno di stare male per apprezzare come si sta quando si sta bene. Nessuno sano di mente si ammala apposta per godere della cura o della guarigione. Semplicemente danno per scontato lo stare bene.
Ai pazienti di cancro è richiesto un surplus di energia da mettere sul tavolo per affrontare la malattia e per fare capire agli altri quanto siano fortunati.
Il paziente oncologico ha sviluppato degli strumenti per leggere la vita (la propria e quella degli altri) molto sensibili. Si rende subito conto di cosa è limpido e di cosa è torbido, se il suo interlocutore è un gigante o una piccola persona. È costretto a farlo perché è consapevole che la sua sopravvivenza dipende dagli altri.
Per questo l'affetto di chi ci ama sul serio è, secondo me, una parte della terapia. Una terapia che dura per sempre.

Quando abbiamo avuto la diagnosi ci sono tremate le gambe, poi, pian piano siamo saliti sul treno delle cure e le curve da affrontare, che all'inizio erano tutte ad angolo retto, si sono via via smussate. C'è chi è ancora in attesa di cominciare, con l'ansia che lo avvinghia; c'è chi è mezzo al grande viaggio, che sa già delle cose e ne aspetta delle altre; c'è chi lo ha completato ed è rassicurato, dal mantenimento o dal rapporto delle free lite e c'è, infine, chi il viaggio non è riuscito a completarlo e non ce l'ha fatta.
Anche io sono sullo stesso treno e mi ricordo di tutti i fratelli e le sorelle che sono seduti nei vari vagoni.
Il calendario della malattia è anche quello dei nostri sentimenti, ci ricordiamo le date dei trapianti o di quello che è successo mentre eravamo ricoverati. Ma anche delle cose buone che abbiamo trovato quando siamo tornati a casa.

Quando alla fine del giro mi sento dire che è tutto a posto e il medico (quello che per me è un fratello) si alza dalla sua sedia per abbracciarmi, mi sento benissimo e vorrei che quell'istante fosse infinito.
È lo stesso dottore che mi segue dal 2005, ci sono momenti in cui era preoccupato e allora le mie paure aumentavano. Ma, in tutte le altre migliaia di volte in cui ero agitato per qualcosa, lui era tranquillo e mi ha rassicurato. E se non era preoccupato lui, perché avrei dovuto esserlo io?

Non dobbiamo avere paura, dobbiamo andare avanti disinteressandoci di quello che non ci piace. Nonostante le tenebre che, a volte, ci vengono a cercare.
Come I ragazzi che si amano di Prevert.
  
I ragazzi che si amano si baciano in piedi
Contro le porte della notte
E i passanti che passano li segnano a dito
Ma i ragazzi che si amano
Non ci sono per nessuno
Ed è soltanto la loro ombra
Che trema nel buio
Suscitando la rabbia dei passanti
La loro rabbia il loro disprezzo i loro risolini
la loro invidia
I ragazzi che si amano non ci sono per nessuno
Loro sono altrove ben più lontano della notte
Ben più in alto del sole
Nell'abbagliante splendore del loro primo amore
J. Prevert

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giovedì 18 aprile 2019

Oggi compio tredici anni

Tredici anni dopo sono qui. Ogni anno il 18 aprile festeggio il compleanno della mia rinascita. E' il giorno in cui mi hanno infuso le cellule emopoietiche del mio donatore per provare ad abbattere il mieloma.
Hanno lavorato bene e oggi posso scrivere questo post e esprimere, una volta di più, i sentimenti che provo. Il primo è la gratitudine verso tutti coloro che hanno reso possibile la mia resurrezione.
Di questo stiamo parlando di vita e di morte.
In quel momento non c'erano molte opzioni, il trapianto da donatore, non consanguineo nel mio caso, era l'unica strada per uno della mia età. Avevo quarant'anni, gli anni in cui si prova a raccogliere un po' del lavoro che si è fatto.
A me è toccato prima il cancro (velocissimo per come si è manifestato) e poi le cure, lente, e lunghissime ma, fino a oggi, risolutive.
Successivamente un'infinità di amarezze in campo lavorativo, cassa integrazione, licenziamento, nuovo lavoro.
Tutto è stato una fatica, così come è faticoso ribadire che a 50 anni qualcosa da dire ce lo ho ancora, mentre ti accorgi che per gli altri non è così.
"Com'è misera la vita negli abusi di potere" direbbe Franco Battiato
E tutto questo non perché ho curato un tumore. I segni che mi sono rimasti sono indelebili

Tuttavia (come amo questa parola) i nostri atti di coraggio sono stati ripagati, come quello di cercare un figlio prima di iniziare la chemio e vedere poi nascere (e crescere) Lorenzo; di ripartire dopo aver perso il lavoro, cercandone un altro.

Il percorso è stato lungo e tortuoso, e insieme alla fortuna (primaria componente, sempre) c'è tutto quello che abbiamo messo noi (famiglia, medici, infermieri, donatore, vicini di letto etc...).
Fortunatamente sono in remissione completa (anche questa è una parola che mi piace, anzi forse è la parola che mi piace di  più).
Le cure oggi sono molto cambiate e chi deve affrontare questa brutta merda ha molte opzioni in più, oltre ad avere un maggiore accesso alle informazioni.

C'è chi si sta curando in questo momento e chi, purtroppo, non ce l'ha fatta: sono sempre loro i primi a cui penso.
So cosa vuol dire un controllo che ti allarma, una terapia che ti spaventa, l'avvicinarsi della data, la paura di quel che potrebbe esserci detto.

Il mio giro sarà tra qualche settimana e, benché non mi aspetti delle sorprese clamorose, sono sempre in ansia quando il momento si avvicina.
Sono sentimenti che può provare solo chi conosce di cosa si sta parlando, gli altri non lo possono sentire se sono fuori dalla nostra cerchia ristretta.

Non c'è niente di bello nel cancro, la resilienza è una cazzata. Se uno sta bene non si rafforza stando male.

Mi sono trovato, mio malgrado, a dover affrontare prove esiziali, definitive. Prove in cui la retromarcia non esiste, sempre "avanti tutta", si affronta la vita in un modo solo, con l'obbiettivo di buttare giù una montagna, anche, solo, con un cucchiaino da caffè.
Alla fine ci si può riuscire, come è successo a me, ma pagando un prezzo alla fatica davvero alto. Comunque, ovviamente, ne vale la pena.
Vale sempre la pena: il sorriso della mia famiglia mi ha sempre ripagato di tutto.



Un abbraccio a tutti fratelli e sorelle che, ora, in questo preciso momento, ci stanno provando. La felicità si può anche trovare e, in un giorno come oggi, la sento un po' più vicina