sabato 4 luglio 2020

Il mio libro sul Mieloma per il quale sto cercando un editore: Sono nato dopo mio figlio 2 parte

Ho avuto la fortuna di pubblicare tre libri:, due sul Milan e uno su Milano, tutti e tre mi hanno dato grandi soddisfazioni e mi hanno fatto avere l'immeritata qualifica di scrittore.Con questo testo ho deciso di affrontare me stesso.

Qui pubblico le prime pagine riaggiornate del libro per il quale sto cercando un editore

Il libro si intitola Sono nato dopo mio figlio 


                                                    

                                                            SONO NATO DOPO MIO FIGLIO

 

Tutto quello che non è autobiografico,

è plagio

Pedro Almodovar

 

 

Vita sei bella,

morte fai schifo

Claudio Villa


 

 

 

 

Solo due parole

Una breve introduzione

 

 

Queste sono le mie generalità. C’è tutto: chi sono, dove sono nato, che malattia ho, quanto è grave, come sono stato curato, quando ho fatto il trapianto di midollo osseo da donatore non consanguineo, quanto tempo è trascorso, come sto oggi.

 

Paziente: MARCO DELL'ACQUA  Luogo di nascita: MILANO Data di nascita: 18/06/1966  Sesso: M

 

Problematiche cliniche: Mieloma Multiplo stadio III B in remissione completa (IgGlambda). Allo- TMO MUD “Protocollo Kroger” 18/04/06 da donatrice femmina (mismatched al locus DP).

 

Relazione clinica + 14 anni e 1 mese post MUD (Matched Unrelated Donor)

 

Complessivamente condizioni cliniche buone.

Persiste stato emotivo ansioso importante, verosimilmente legato alla problematiche personali, tra cui spicca il problema della situazione lavorativa. Conduce vita normale. Non sintomi da GVHD.

 

Parto dal fondo ovvero dall’ultimo referto dell’ultimo controllo che ho fatto per la mia malattia: il Mieloma, un cancro del sangue.

Il mio come si legge era allo stadio III, il più grave.

 

Il mieloma è una neoplasia per la quale sino a qualche anno fa le speranze di sopravvivere erano bassissime. Poi sono arrivate delle cure innovative (che progrediscono in continuazione), da quel momento le cose sono cambiate.

Io ho avuto quelle cure e oggi, grazie a un’equipe strepitosa e alla mia donatrice di midollo osseo (che non conosco), sono vivo. Sono trascorsi quattordici anni e il trapianto di midollo da donatore, contrariamente a quanto è accaduto a me, non è più l’unica opzione terapeutica.

L’esperienza è terribile per chiunque si trovi ad affrontarla, non mi riferisco solo ai pazienti: il cancro non coinvolge solo chi ne viene colpito ma anche chi gli è vicino.

E’ per questo che essere sopravvissuto al tumore, per me, e per chi mi vuole bene, è stato come se fossi nato una seconda volta.

 

Nel mezzo delle cure più pesanti (e prima del trapianto da donatore) è nato mio figlio e così posso dire di essere venuto al mondo dopo di lui che adesso ha 15 anni e per me è una specie di fratello maggiore che mi guida nella vita di tutti i giorni.

E con la sua purezza mi aiuta a difendermi da tutti i gatti e da tutte le volpi che ci circondano.

 

Oggi sto bene, nel senso che non c’è più la malattia, conduco una vita normale e posso fare quasi tutto quello che voglio.

Quasi, perché gli strascichi sono rimasti, mi affatico più degli altri, il fisico è un po’ più debole di quando giocavo a pallone tutti i giorni per quattro/cinque ore consecutivamente, il raffreddore mi dura un mese, le ossa mi fanno male e si fanno sentire ma sono fastidi decisamente sopportabili considerando che lo posso raccontare.

Racconto anche delle persone che sono state intorno a me, quelle grandi che mi hanno salvato la vita e quelle minuscole che invece hanno provato a complicarmela.

 

Questo testo è una specie di deposizione sulla vita, sui suoi agguati, sulle sue sfighe ma anche sulle pieghe meravigliose che ci può riservare. Ma è anche la possibilità di raccontare il mio “dopo” i periodi di cura e terapia.

 

Albert Camus disse «tutto quello che so della vita l’ho imparato dal calcio», da grande appassionato di pallone dovrei essere d’accordo con lui, ma preferisco parafrasare la sua citazione e dire «molto di quello che oggi so della vita l’ho imparato dal cancro».

 

Ho imparato, e ne ho piena consapevolezza, che possiamo determinare gli eventi sino a un certo punto.

Tutti lottano e molti, purtroppo, smettono di lottare perché vengono annientati dal cancro.

Chi rimane fregato dalla malattia non sarà mai un perdente: forse sarà uno sconfitto perché ha lottato sino allo stremo delle forze ed è stato, alla fine, “solo” più sfortunato.

 

Non credo che i genitori dei bimbi nelle pediatrie oncologiche, e i loro piccoli tesori, abbiano mai smesso di combattere è che, a volte, non possono o non riescono a opporsi a un destino maledetto.

 

In definitiva, chi sopravvive non è un vincente, come certa retorica vorrebbe farlo apparire, ma solo uno con più culo.

La differenza spesso, purtroppo, è tutta lì.

Questo vale per il cancro e per tante cose della vita, solo che molti non se ne rendono conto e ci spiegano che volere è potere.

Non è vero.

 

 

 

Milano, Luglio 2020


Parte prima

Vita


 

 

 

A.

 

 

1.

Tutte le storie hanno un inizio, o almeno un punto dal quale cominciare.

La mia non fa eccezione.

E, per fortuna, non è ancora finita.

Alce Nero, cui si è ispirato anche il film Piccolo Grande Uomo, racconta la sua storia ormai vecchio e in una riserva indiana.

E’ un’esistenza affascinante, fatta di battaglie, di sacrifici e di un modo di vedere il mondo che era inconcepibile per l’uomo bianco, affamato di denaro e di potere.

Nella mia storia, lo dico subito, il denaro e il potere non c’entrano niente.

C’entrano invece le persone che ho incontrato, sono tante e non so nemmeno se riuscirò a citarle tutte. Ognuna mi ha lasciato qualcosa.

Ho attraversato un momento drammatico ma oggi ho la possibilità di raccontare il prima, il durante e, soprattutto, visto il privilegio che ho avuto, il dopo.

 

Sono un figlio degli anni sessanta, arrivato giusto alla fine del baby boom, in un’Italia che sulla scia finale dell’euforia della ricostruzione si accingeva a entrare negli anni settanta, un decennio pesante sotto molti punti di vista.

Ero figlio di genitori separati, e in quel periodo questo, socialmente, era quasi un marchio, una lettera scarlatta tatuata sulla pelle.

Ma a Milano ci eravamo trovati in tanti in quella condizione, al punto che, all’asilo, c’era la classe dei “divorziati”.

Erano anni in cui si lottava, per i diritti dei lavoratori, per i diritti degli studenti, per i diritti civili, il divorzio appunto, l’aborto, l’emancipazione della donna, il diritto alla casa. Le cose stavano cambiando.

Anche la scuola stava cambiando, le elementari le ho frequentate in un ambiente completamente misto in cui stavano insieme i ricchissimi di certe zone e gli immigrati arrivati dal sud e in quel periodo erano in molti.

Ognuno aveva le sue abitudini, le sue specificità.

Le differenze, c’erano, erano evidenti, ma là dentro, nel delirio di Jesahel, nessuno ci faceva caso.

Anzi eravamo tutti contenti. Certe distinzioni e etichette sono arrivate solo successivamente. 

Viarasori era il nome con cui era indicata la scuola (tutto attaccato) regno dei freak, oggi una cosa del genere farebbe ridere, tanto la gentrificazione ha cambiato lo scenario di quella zona. Allora c’erano le insegnanti colorate, esuberanti, divertenti, aperte mentalmente -si accennava addirittura all’educazione sessuale- soprattutto quelle del pomeriggio (e io ero un praticante del rito del tempo pieno).

Io e la mia famiglia avevamo una vita complicata, certamente Lucio Dalla non pensava a me quanto ha scolpito il ritratto di Marco … con sua madre e una sorella, poca vita, sempre quella..

Però mi ci sono ritrovato in pieno, con l’aggiunta preziosa della nonna che si prendeva cura di noi.

A scuola, ero bravissimo, dico davvero, e questo mi consentiva di entrare nella cerchia di coloro per cui la maestra stravedeva, pur se ero un casinista.

Alle elementari ne ho fatte davvero di tutti i colori, mi sono rotto il braccio quattro volte, ho battuto la testa per terra in modo violento, suonavo la campanella fregando il custode, allagavo i bagni, mi hanno operato di appendicite (naturalmente in peritonite).

Agli esami di quinta mi presentai con il gesso e fui il primo a essere interrogato.

La mia è stata un'infanzia sempre a metà strada tra la felicità e i problemi di famiglia. Ma non mi è mai mancato nulla.

I colpi di sfortuna, però, non mancavano di certo, a dieci anni io e mia sorella fummo investiti da un’auto, lei andò in coma e io subii un trauma cranico.

Eravamo al mare con la nonna, mia madre ci aveva lasciato al sicuro ed era andata a trascorrere qualche giorno di vacanza da dei suoi amici (era molto giovane e molto bella).

Avevamo una voglia matta di diventare grandi e di essere indipendenti:

-       Nonna, ci portiamo avanti, cominciamo ad andare in spiaggia

-       Va bene ma fate attenzione

-       si non ti preoccupare siamo grandi

-       Fate attenzione lo stesso

Tempo di uscire dalla pensione, arrivare alla strada da attraversare e booom, presi in pieno da un'auto guidata da un’anziana.

Perdevo sangue dal naso, mi accompagnarono in un negozio a bagnarmi, nel frattempo chiamarono l’ambulanza.

Riuscii a girarmi e vidi mia sorella, era in terra, immobile in mezzo al sangue.

Avevo dieci anni e il terrore mi assalì. Ero stato immediatamente consapevole della gravità di quanto era accaduto.

Ci caricarono sulla lettiga, e a sirene spiegate arrivammo al piccolo ospedale di provincia. Quelli con la cappelletta in mezzo a un parco, abituati a consigliare i villeggianti su quale protezione solare utilizzare, a mettere i punti a chi si tagliava sulla spiaggia o a chi veniva punto dalle meduse. Non certo abituati a trattare commozioni cerebrali e trauma cranici.

Furono però pronti e attenti alle nostre esigenze di piccoli pazienti.

Mia nonna fu avvertita, si precipitò e vide me al pronto soccorso, ma non mia sorella perché la stavano rianimando.

Mia madre rientrò immediatamente e appena mia sorella percepì la sua presenza, si risvegliò.

La medicina della mamma.

Sono cresciuto insieme a tre donne tutte con un carattere forte, all’epoca del fatto mia nonna aveva cinquantasette anni (tre più di me oggi). L’energia femminile scorreva potente in casa nostra.

 

Furono giorni brutti, ma la porta, la ruota, la terra, tutto quello che poteva ruotare, cambiò direzione di 180°.

Alla fine di quell’estate mia madre trovò di nuovo l’affetto e noi un papà e un fratellino in arrivo.

 

Tutto cambiò in meglio. La negatività era alle spalle.

Eravamo diventati una famiglia regolare, allargata ma una famiglia, non c’erano più spiegazioni da dare sul perché c’era una mamma con due bambini piccoli. Avevamo i nostri alti e bassi, ma stavamo bene.

Fatte le medie mi sono iscritto a uno dei licei scientifici più famosi (e fighetti) di Milano, ero nel bacino anche se abitavo lontano.

In quegli anni cominciavo a frequentare San Siro da solo per le partite del Milan, anche lì stagioni altalenanti.

Dalla stella alla B. Ma anche per andare ai concerti: Bob Marley, nel 1980, fu un evento storico, in grado di descrivere un paio di generazioni tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli ottanta. Fu, per me, un rito di passaggio dall’infanzia all’adolescenza.

Vita, vita, vita. sono queste le parole che escono quando parlo con qualcuno dei miei coetanei che hanno condiviso quell’esperienza.

Gli anni del Liceo sono stati soffertissimi, sempre al limite della sufficienza, sempre rimandato, bocciato in seconda.

In quarta ho avuto chimica e inglese a settembre. Chimica e inglese? Si chimica e inglese, che ho dovuto studiare con un chiodo infilato nel pollice perché ero caduto in motorino e mi avevano operato.

Male della madonna.

Maturità nel 1985, anno del Live Aid: 37 senza aggiungere altro.

Eravamo nel mezzo degli anni Ottanta, un decennio di cambiamento rispetto a quello precedente, mi sono iscritto a Scienze politiche e intanto a Milano si è passati:

dall’Eskimo al Moncler;

dall’odore dei lacrimogeni a quello delle essenze;

da Carosello alla pubblicità dell’Amaro Ramazzotti della Milano da Bere;

dai movimenti collettivi all’individualismo;

dal privato è pubblico al privato è privato;

da Mao a Reagan e Thatcher;

dalla salamella alle pennette, panna, gamberetti e vodka;

dall’eroina alla cocaina;

dalla Vincenzina alla Barattini Tenti;

dal film di Lizzani “San Babila ore 20” a “Sotto il vestito niente” dei Vanzina;

dal tabellone della Borsa aggiornato con il gesso alla Borsa telematica;

dalle grandi industrie al terziario, alla finanza, ai capitani coraggiosi;

dal Milan due volte in B al Milan due volte campione d’Europa;

dalle tribune politiche a Nonsolomoda con la voce fuoricampo;

dal poco trucco al glittering;

dalle radio libere ai network;

dagli operai che leggono Lotta continua agli operai che leggono il Sole 24 ore;

dal processo a De Gregori, passando per Bob Marley che “rompe” l’embargo su Milano, alla sera in cui in contemporanea suonano David Bowie e Peter Gabriel in due luoghi differenti;

dagli omicidi per terrorismo (Tobagi, Alessandrini etc..) a quello di Roberto D’Alessio (le cronache lo definivano un playboy dalla bella vita) da parte di Terry Broome;

dalle mozioni al pay off;

dalle luci gialle e i cortei alle discoteche;

dalla ghisa all’effimero;

dalla Notte della Repubblica alla notte di Madrid con Zoff che alza la coppa per un paese in preda a un’anfetamina collettiva che ha accorciato la memoria.

Di questi argomenti se ne parlava al corso di Sociologia di Alberoni.

Mi ero iscritto a Scienze Politiche, la facoltà che ho adorato, dove mi hanno dato gli strumenti per capire quello che succede intorno a noi.

Laurea in Sociologia con una tesi sul simbolismo del cibo, mi sono divertito, molto meglio del liceo.

Qui ho conosciuto il mio amico di una vita.

Non sono mancati il servizio militare e il lavoretto da universitario (che tanto lavoretto non era) a Il Libraccio per un sacco di anni.

Vendevo i libri usati a una folla indemoniata che si metteva in coda all’alba, poi sono stato promosso all’acquisto e ad avviare altri punti vendita.

Ero uno di quelli che valutava i libri e diceva questo sì, questo no, per questi ti do tot.

Una negoziazione continua, ho visto almeno due o tre generazioni di studenti venire a incassare e poi partire per le vacanze estive.

I maturati scaricavano tutto, inclusi i dizionari, compreso il Rocci (il vocabolario di greco utilizzato al classico), non vedevano l’ora di vendersi tutto..

Ho lavorato con i Padri fondatori (Piero, Silvio, Tico, Edo, Carlo) e anche a loro voglio sempre bene.

Solite domande ai ragazzi e ai genitori:

- nuovi o usati?

- anche il libro di religione?

- mi fai vedere la lista?

- perché vuoi i libri di prima e di seconda? Sei un bocciato? (eravamo veramente perfidi).

- I dizionari ce li hai, latino, greco, inglese? sei a posto?

 

Titoli tutti uguali, con autori uguali, bisognava conoscere tutto a memoria, anche il colore delle copertine. Le pile di libri erano dappertutto.

Adesso basta un beep sul codice a barre e sai la giacenza, l’edizione, in quali scuole adottano il libro etc..

E’ stata un'esperienza splendida.

Calcisticamente ho vissuto il periodo d’oro del Milan di Sacchi e Capello tre Champions, ho partecipato all’esodo Barcellona, alla semifinale con il gol di Borgonovo e a due finali perse.

La passione mi ha sempre accompagnato.

 

I viaggi, le letture, gli amici, gli alti e i bassi, sapevo bene cosa non volevo, un po’ meno quello che volevo.

 

Prima di varcare il millennio ho conosciuto mia moglie.

Amici comuni ci avevano presentato, subito abbiamo fatto un viaggio negli Stati Uniti viaggiando su tutta la costa Ovest.

Posti magnifici dove ero già stato e in cui sono voluto tornare con lei.

Il matrimonio fu all’Arena, in uno dei giorni più caldi dell’anno più caldo (2003).

Nelle telecronache avrebbero detto: tutto molto bello.

Poi, a un certo punto, qualche mese dopo, è arrivato quell’ospite di merda dentro la mia testa.

 

Se fosse una sceneggiatura a questo punto dovrei scrivere una cosa del tipo:

-       stacco, spazio nero tre secondi.

-       cambio scena, asciutta, solo assi di legno, crepuscolo con luce bianca, vuoto.

-       Insomma Beckett

 

 

 

 

 

 


 

 

 

B.

 

 

1.

Una mattina di primavera del 2004 in cui mi preparavo per andare a lavorare mi accorsi di avere un bozzo sulla testa.

Sentivo qualcosa già da qualche settimana quando mettevo il casco e giravo con il mio vespino.

Il rigonfiamento era centrale, toccando meglio si sentiva che era duro.

Non avvertivo però né dolore né fastidio.

Pur con questa bolla in testa, continuavo la mia vita di tutti i giorni.

Una vita piena, ricca di cose belle che mi stavano accadendo. Chi era intorno a me però un po’ si preoccupava. Prima di tutti mia moglie e mia madre: fu lei a dirmi di aver parlato con un neurochirurgo ai giardini.

Si erano incontrati portando a spasso i cani, durante le chiacchierate da passeggio venne fuori della mia ciste (così l’aveva battezzata un altro medico).

Il neurochirurgo, per il fatto che uno è medico sempre anche quando non ha il camice bianco e porta in giro il suo quadrupede, suggerì di andare a “trovarlo” quando era di guardia in modo che mi potesse visitare.

L’idea di entrare in un ospedale non mi era congeniale: avevo quasi trentotto anni e quello era un periodo della mia vita in cui facevo progetti, pensavo ai viaggi, alla famiglia, al lavoro, al pallone e un po’ a spaccare il mondo.

Pensieri che, magari, qualcuno avrebbe potuto definire piccolo borghesi ma che non facevano del male a nessuno.

Ero in vacanza quando ricevetti la chiamata e la comunicazione dell’orario in cui presentarmi alla visita.

 

Presi un permesso al lavoro, attraversai Milano, una Milano riscaldata dall’estate imminente, e andai al pronto soccorso.

Incontrai il dottor C. in una saletta visite. Era un tipo che sembrava simpatico, con qualche capello bianco sulle tempie, occhi arzilli.

Niente mi lasciava presagire cosa sarebbe accaduto nei minuti successivi: da quel momento la mia vita avrebbe subito un radicale cambiamento, il primo di una serie.

Appena appoggiò le sue preziose mani sulla mia testa, il neurochirurgo cambiò espressione. Diventò serissimo. Palpò più di una volta e si rese conto che c’era una scanalatura tra la massa e la teca cranica. In un primo momento non mi disse nulla, poi accennò a cosa aveva sentito.

-       l’osso del cranio è stato corroso, il bozzo è qualcosa di serio

-       ah mhhmm eh,

-       ti mando a fare una tac, questa roba non mi piace

-       uh mmhmm eh

non riuscivo a dire niente.

Gita nel tubo, referto:

-       la massa ha intaccato la teca cranica, la sta consumando, bisogna rimuoverla al più presto.

 

In quel momento ho capito il senso dell’eternità di certi momenti.

-       non preoccuparti, qui siamo bravi starai dentro solo qualche giorno

-       mah, veramente, il lavoro, mia moglie, il mio compleanno.

-       dai, dai adesso vai a casa ti chiamiamo noi.

 

 

 

2.

La risonanza di controllo non mi aveva ancora fatto cambiare atteggiamento nei confronti della vita di tutti i giorni.

Ero inzuppato di senso del lavoro, un lavoro che mi piaceva. Mi sono informato per capire quanti giorni sarei dovuto rimanere lontano dal mio posto di combattimento: quell’attaccamento mi serviva per esorcizzare la paura.

Non avevo fatto ancora niente e già mi preoccupavo.

 

Del resto, «Nessuno vuole morire neppure chi vuole andare in Paradiso» ha detto Steve Jobs nel famoso discorso a Stanford, quello di Stay foolish, Stay hungry, di cui tutti ricordano solo la parte finale.

Pensavo alle vacanze e cercavo di essere sereno e di essere pronto a festeggiare il mio primo anniversario di matrimonio e il mio compleanno.

Quell’incontro al pronto soccorso, però, ha iniziato, da subito, come un tarlo, a battermi nella testa, tanto che nel percorso di ritorno dall’ospedale a casa non ho guidato granché bene.

Prima di partire ho chiamato Ida e le ho dato le notizie: non erano buone ma non ancora cattive.

Un’operazione alla testa non poteva essere una buona notizia.

Stavamo navigando in acque placide e di colpo, in due ore, ci siamo ritrovati in prossimità delle rapide.

Appena ci siamo visti, senza dire nemmeno una parola, ci siamo abbracciati. Poi ci siamo detti le cose che si dicono in quei momenti. Cose che non sono banali se dette da chi ci ama. Ce la faremo, questo ci siamo detti.

.

Ida ed io eravamo sposati da poco e convivevamo da qualche anno, ci sentivamo pronti per avere il figlio che desideravamo. Eravamo pronti a sorridere alla vita, eravamo pronti a tante cose. Tutto ci sembrava idilliaco, la nostra nuova, luminosa e stupenda (ovviamente il giudizio è di parte) casa, i giri in vespa, gli amici.

Vivere era di una semplicità familiare, come certe trattorie con il pergolato, il giardino davanti e il sole che tramonta.

O placidamente rilassante come un caffè al Nephente di Big Sur. E noi lì seduti a godercelo.

Questo erano quelle settimane e quei mesi per noi.

 

3.

La chiamata per la comunicazione della data del ricovero per l’intervento non tardò ad arrivare. Avevo poco tempo per organizzarmi, dovevo comprare dei pigiami, delle ciabatte, il portaspazzolino.

Fare quegli acquisti è stato molto triste, sapevo che sarei dovuto entrare in ospedale e volevo mantenere la mia dignità di essere umano.

Volevo presentarmi a modo all’appuntamento con gli sconosciuti che mi avrebbero curato. All’interno dei centri di cura tutti i pazienti vogliono essere in ordine per mostrare al piccolo mondo della corsia che si è ancora uomini seppur menomati.

 

Pochi giorni dopo mi presentai all'accettazione era il pomeriggio di un giorno di giugno, la mattina ero stato in ufficio.

Avevo con me non una cartella di lavoro ma la borsa del ricoverato.

La giornata fu tranquilla ma mi è rimasta in mente la pausa pranzo, la trascorsi insieme a dei colleghi: erano contenti, ridevano, io non ce la facevo nemmeno a parlare.

Cercavo di non dare peso a quello cui stavo andando incontro. Tra i vari pareri che sentivo in quei giorni, c’era sempre quello del superman: che lui l’hanno operato senza anestesia, che ha delle pillole (scadute) di saggezza spiccia da somministrarti lì sul momento, che non è niente, che lui una volta è stato morso da un cobra e si è salvato. Così fighi che Paul Newman, dico Paul Newman, non sarebbe contato nulla a al loro cospetto.

 

Storie al limite della fantascienza, queste si da veri spacconi. Storie che volevano incoraggiarmi e invece erano di un’inutilità disarmante.

Storie di ego troppo grandi.

Invidiavo però la tranquillità e la leggerezza di chi le raccontava.

 

 

4.

All’ospedale mi accompagnarono mia moglie, mio fratello e mio papà. Mi salutarono, mi lasciarono lì in borghese, misi il pigiama e le ciabatte.

E’ bastato quello e da impiegato sono diventato paziente.

Faceva effetto, niente mi era familiare, non ero più nella mia tiepida casa.

Mi hanno assegnato letto e armadietto; erano tutti gentili: quelli della mia stanza, quelli delle altre stanze, infermieri e medici. Intanto quella notte avrei dormito in un letto con le maniglie, con la traversina anti diuresi notturna, con il campanello da suonare e di fianco a qualcuno che non stava tanto bene.

La neurochirurgia aveva la nomea di essere un reparto tosto: dove si aprono le teste e le si rimettono a posto.

Alla mia teca cranica sarebbe toccato dopo qualche giorno.

Ero completamente nelle loro mani. Il concetto di fiducia, che in bocca ai manager (il brand di qua, il brand di là) o ai politici pareva non avere peso talmente era banalizzato, diventava fondamentale.

Già, che ne sanno manager e politici di cosa è veramente la fiducia o la vita, a loro interessano i numeri: dei loro voti, dei loro stipendi, dei loro profitti.

In quel luogo di cura eravamo tutti uguali senza differenze di ceto, d’istruzione etc...

Tutti volevamo solo stare meglio.

C’erano i parenti che dormivano sulle sedie dentro le camere o nelle sale d’aspetto.

L’affetto spingeva le persone a voler star vicino ai propri cari: costasse quello che costasse.

Aspettavo l’ora delle visite di amici e parenti. Ero a un piano alto e mi piaceva vedere il sole tramontare.

 

 

5.

La preparazione all’intervento prevedeva la rasata a zero del cranio ma senza parrucchieri di grido; invece dei già campioni del mondo fratelli Bundy arrivò l’infermiere con la macchinetta e la mano di chi aveva già fatto migliaia di volte quell’operazione.

Rasata e clisteri, in pochi secondi ero pronto.

Andai a letto, dormivo, non dormivo, mi giravo, mi rigiravo, il mio vicino russava di bestia. Non saprei nemmeno dire come mi sentivo, ero stanco. La giornata era stata faticosa, la mattina avevo dovuto firmare il consenso informato. Il chirurgo mi aveva illustrato l’intervento e anche le conseguenze che sarebbero potute esserci nel caso qualcosa fosse andato male: potevo rimanere paralizzato o anche morire.

La paura vibrava dentro di me e aveva una temperatura bassa.

Quanti sono quelli che conosciamo che hanno dovuto firmare per la propria vita? I rischi c’erano veramente.

Era tutto nuovo, le frequentazioni precedenti degli ospedali non mi avevano mai posto di fronte a decisioni così importanti.

 

Quella era una delle prime, delle tante che avrei dovuto prendere sul mio futuro, basandomi su percentuali che parlavano di morte.

Non era semplice, non era come scegliere il tè al latte o al limone, il caffè normale o macchiato, Diesel o benzina, zucchero di canna o bianco

La vita e la morte, o anche solo il rischio di morire, hanno un’identità molto precisa.

Ci ho pensato e ho firmato: non avevo altra scelta.

Mia moglie, la notte prima dell’intervento era molto spaventata: per fortuna non era sola. Ci siamo sentiti al telefono, tutti e due fingevamo all’altro di essere tranquilli. Nessuno sapeva come sarebbe andata il mattino successivo.

 

 

6.

Mi sono svegliato, o forse ero già sveglio, e mi hanno portato nella camera operatoria.

Chi mi voleva bene era nella sala di attesa. Non c’era un bell’avvenimento da festeggiare, tutti però speravano che l’operazione avesse un buon esito.

Incisero, sbucciando la mia testa come se fosse una pesca, e iniziarono a mettermi le mani sulla teca. Tutto, mi hanno detto, è durato poco. Il chirurgo è sceso dai parenti, proprio come nei film e telefilm, e alla piccola platea disse di essere contento per com’era andato l’intervento. Lui temeva che la massa fosse un cancro e che avesse infiltrato nervi e cervello e invece non era così. L’aveva comodamente scucchiaiata come un budino (quella era la consistenza) e poi ha chiuso il buco con una resina speciale perché le ossa del cranio non riossificano, così oggi ho un tappo proprio nella parte centrale della testa. Tutto è stato ricucito con 35 punti, la cicatrice si vede piuttosto bene anche adesso.

Tutto bene quindi?

Tutto bene un cazzo!!!

 

Stop fermiamo la scena, è in questo momento che tutto cambia un’altra volta.

Felici perché non era un cancro al cervello si sentivano tutti più rilassati. A quel punto la mazzata

 

Il vetrino fatto subito dopo l’asportazione della massa, una specie di pre-esame istologico, evidenziava una neoplasia del sangue, ma la conferma la si sarebbe avuta solo qualche giorno dopo con l’esito della biopsia del tessuto prelevato.

Si Iniziava a parlare di altre verifiche, di chemioterapia, di radioterapia, tutto però senza ancora una diagnosi precisa. Io non sapevo niente, non mi dissero subito le cose perché dovevo riprendermi dall’intervento.

Un’altra mattinata pesantissima in cui ho iniziato a vivere quello che tante persone non hanno mai affrontato in una vita, mentre quelle che l’hanno affrontato sanno di cosa sto parlando.

In modo dolce e cercando di togliermi ogni possibile preoccupazione, mi hanno comunicato la notizia.

Ero a letto con ancora il catetere per fare pipì e il drenaggio per fare uscire il sangue dalla ferita in testa. Un po’ d’impressione la facevo.

Mi sono svegliato e ho parlato subito. Mi ricordavo anche il PIN del cellulare.

In mezza giornata da figlio, fratello, marito, ero diventato ufficialmente un figlio, un fratello, un marito malato di cancro. Una parola paurosa, acida come certe piogge. Una parola che quando inizia a frequentarti ti rimane incollata addosso.

Non ero preparato a essere un paziente oncologico. Nessuno è preparato a colpi così.

 

 

7.

Il giorno successivo l’operazione sarebbe stato il mio compleanno e il regalo che avevo ricevuto non era stato dei migliori. Divisi tra il magone e i sorrisi chi venne a trovarmi mi fece anche dei regalini.

Festeggiare è una parola poco frequente in ospedale, però abbiamo mangiato lo stesso un po’ di torta. Non è stato un bel modo di compiere i miei 38 anni.

-       ciao Marco auguri, strano festeggiare in ospedale

-       si strano, sono stanco

-       dai che tra poco esci

-       mah veramente non lo so devo fare ancora una montagna di esami

-       cosa dicono i dottori?

-       non ci ho capito molto, mi diranno.

-       dai, dai, cazzo!

-       Ok grazie

 

Dopo qualche giorno è arrivato l’esame istologico completo, il verdetto preciso era plasmocitoma solitario (cioè il mieloma in un punto solo). Dopo aver rimosso la massa gli esami migliorarono.

Di quella malattia nessuno di noi sapeva niente, sapevo solo di dover prolungare la mia permanenza in ospedale. Mi dovevano fare tutti gli esami previsti dal protocollo: risonanza alla spina dorsale, radiografie di tutto lo scheletro, esami del sangue specifici e l’esame dell’urina per verificare la presenza della proteinuria di Bence Jones. Infine la biopsia osteomidollare (la prima di una lunga serie): si buca l’osso del bacino, si aspira un po’ di midollo e viene staccato un pezzettino di osso.

Fa male, molto male. Ma poi passa.

Vidi il neurochirurgo, l’ematologo, il radioterapista, cominciavo a capire che il mieloma era una brutta bestia. Al momento si decise di non fare nulla e di fidarsi del fatto che la malattia fosse localizzata in un punto soltanto.

Le stanze della neurochirurgia erano a tre letti: il ricambio era veloce e mi ricordo alcuni dei compagni che sono passati, non c’era molta intimità, ognuno appena poteva si alzava e se ne andava. C’era il leghista duro e puro che lui aveva le vacche e il latte da mungere

-       quando torno a casa vado a vedere i vitellini, la mungitura, adesso sto bene

c’era qualcuno che arrivava da lontano e lavorava in un mattatoio dove ammazzava maiali dalla mattina alla sera,

-       pum pum li devo ammazzare,

c’era chi è arrivato insieme ai genitori da una regione lontana. Non sai mai chi puoi incontrare in una camera d’ospedale e a me, a un certo punto è toccato un pazzo assoluto. Si capiva che aveva problemi di droga, i medici lo avevano legato al letto perché altrimenti si sarebbe strappato l’ago della flebo. Dopo due secondi che era nella stanza sento:

-          Come ti chiami?

-          Marco

-          A ciao, senti Marco, slegami, dai slegami

-          Non credo di potere

-          Ma dai è tutto a posto, tranquillo non faccio niente….

-          NON POSSO!

-          Dai slegami, dammi una sigaretta, ti prometto sto bravo

 

Era ammiccante, tutto tatuato ma con una sua dolcezza, si dimenava nel letto e faceva casino. Hanno dovuto spostarmi per lasciarmi più tranquillo poiché avevo ancora la testa fasciata e lui l’hanno sicuramente addormentato.

 

 

8.

Dopo le dimissioni Una breve vacanza riuscimmo a concedercela con la preoccupazione del ritorno. Prima di partire però dovevo ancora portare a termine alcune formalità per la radioterapia: dovevano farmi il calco della faccia per prepararmi una maschera di plastica con segnati i punti in cui il raggio avrebbe dovuto colpire.

Passo dopo passo mi stavo ritrovando dentro a un pozzo senza fine, a ogni nuova visita c’era qualcosa da imparare. Per le vacanze raggiungemmo dei cari amici in Svizzera, là abbiamo vissuto delle belle giornate,

Gli esami eseguiti appena rientrato sembravano alimentare qualche speranza.

 

Ero entrato in una storia, con tanti personaggi e un unico finale possibile.

Ero entrato nella mia storia.

 

 

9.

Settembre portò l’autunno e con esso la radioterapia: il turno era la mattina presto. Per circa un mese partivo all’alba, arrivavo nella stanza della radio, prendevo la mia dose di raggio e poi andavo al lavoro. Il tragitto era lunghissimo.

La radio non fece alcun effetto se non quello di farmi cadere i capelli per sempre e di lasciare bene in vista la cicatrice dell’intervento. Non avevo ancora iniziato la chemio e già li avevo persi: definitivamente.

Il disegno della zona era perfetto sembrava un cerchio nel grano, la circonferenza era geometricamente definita.

L’ematologia dell’ospedale dove mi hanno operato mi seguiva in modo un po’ disordinato, questo lo avrei capito dopo passando in un altro istituto.

Poche notizie, tanti dottori, ero spaesato.

I medici decisero per la strategia wait and watch (in pratica un monitoraggio della situazione): il mieloma in molti casi rimane silente e tollerabile e non è necessario fare per forza qualcosa. Non eravamo tranquilli, sapevamo che lo scenario sarebbe potuto cambiare, nuovamente, da un momento all’altro.

Decidemmo di avere altri consulti, di capirci di più. Ogni giorno c’era una scelta da fare senza però conoscenze specifiche, e lasciamo stare internet e quello che si trova: anche cose giuste ma, senza gli strumenti adatti, difficili da distinguere dalle cose sbagliate.

Ogni caso è a sé ed è impossibile generalizzare le esperienze singole. A sembrare sicuro era che l‘incidenza della malattia era più alta tra le persone anziane. Insomma alla mia età era strano.

 

Girando, parlando, mobilitando la rete che avevamo intorno, abbiamo cominciato a sentirci meno soli e così ci siamo messi in contatto con chi ne sapeva qualcosa più di noi.

La fortuna di vivere a Milano ci ha aiutato, in questo la mia città mi ha dato un grande contributo.

Andammo da uno specialista del mieloma e nonostante gli esami andassero bene, non mi lasciò alcuna speranza: la malattia sarebbe tornata ad aggredirmi.

Quel giorno è stata davvero dura, le giornate difficili cominciavano a moltiplicarsi.

Un po’ spaventato, forse con un po’ di vigliaccheria, decisi di continuare le cure nell’ospedale dove ero stato operato e di non andare in quello dello specialista.

I controlli si fecero radi, a rilento.

 

Un’altra randellata, questa volta fatale, mi colpì.

 

 

10.

Gli esami del sangue erano a intervalli un po’ troppo larghi, contrariamente a quanto si sarebbe dovuto fare. A ottobre non me li fecero e giunsi a novembre, ritirai il referto e scoprii da solo il risultato. Nessun medico mi aveva detto nulla.

Mi trovavo in una panetteria di piazza Cadorna quando lessi l’ennesima condanna: l’elettroforesi delle siero proteine mostrava il picco e la componente monoclonale era schizzata. Tutto diventava tremendamente serio e non ero ancora riuscito a parlare con nessuno di qualificato.

Avevamo perso del tempo prezioso. Natale si avvicinava e così tutto era da rimandare a dopo le feste.

A completare il momento terribile, negli stessi giorni, il papà di mia moglie, cui avevano diagnosticato un tumore al cervello, stessa neurochirurgia, stesso dottore ma esito purtroppo diverso, era ricoverato in terapia intensiva.

Il nostro stato d’animo non esisteva più, gli eventi avevano avuto il sopravvento.

 

2 commenti:

  1. ...ke dire Gabriele..commovente...sappiamo quanto può essere difficile e devastante la nostra patologia..sei 1 bella persona..complimenti! ����

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    1. Ciao grazie per il tuo commento che vedo solo ora perché certe funzionalità sul telefono non le vedo.
      Un abbraccio, se vuoi chiedimi l'amicizia su FB.

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