Ho avuto la fortuna di pubblicare tre libri:, due sul Milan e uno su Milano,
tutti e tre mi hanno dato grandi soddisfazioni e mi hanno fatto avere
l'immeritata qualifica di scrittore.Con questo testo ho deciso di affrontare me stesso.
Qui pubblico le prime pagine riaggiornate del libro per il quale sto cercando un editore
Il libro si intitola Sono nato dopo mio figlio
Tutto quello che
non è autobiografico,
è plagio
Pedro Almodovar
Vita sei bella,
morte fai schifo
Claudio Villa
Solo due parole
Una breve introduzione
Queste sono le mie generalità. C’è tutto: chi
sono, dove sono nato, che malattia ho, quanto è grave, come sono stato curato,
quando ho fatto il trapianto di midollo osseo da donatore non consanguineo,
quanto tempo è trascorso, come sto oggi.
Paziente: MARCO
DELL'ACQUA Luogo di nascita: MILANO Data
di nascita: 18/06/1966 Sesso: M
Problematiche
cliniche: Mieloma Multiplo stadio III B in remissione completa (IgGlambda). Allo-
TMO MUD “Protocollo Kroger” 18/04/06 da donatrice femmina (mismatched al locus
DP).
Relazione
clinica + 14 anni e 1 mese post
MUD (Matched Unrelated Donor)
Complessivamente
condizioni cliniche buone.
Persiste
stato emotivo ansioso importante, verosimilmente legato alla problematiche
personali, tra cui spicca il problema della situazione lavorativa. Conduce vita
normale. Non sintomi da GVHD.
Parto dal fondo ovvero dall’ultimo referto
dell’ultimo controllo che ho fatto per la mia malattia: il Mieloma, un cancro
del sangue.
Il mio come si legge era allo stadio III, il più
grave.
Il mieloma è una neoplasia per la quale sino a
qualche anno fa le speranze di sopravvivere erano bassissime. Poi sono arrivate
delle cure innovative (che progrediscono in continuazione), da quel momento le
cose sono cambiate.
Io ho avuto quelle cure e oggi, grazie a
un’equipe strepitosa e alla mia donatrice di midollo osseo (che non conosco),
sono vivo. Sono trascorsi quattordici anni e il trapianto di midollo da
donatore, contrariamente a quanto è accaduto a me, non è più l’unica opzione
terapeutica.
L’esperienza è terribile per chiunque si trovi
ad affrontarla, non mi riferisco solo ai pazienti: il cancro non coinvolge solo
chi ne viene colpito ma anche chi gli è vicino.
E’ per questo che essere sopravvissuto al
tumore, per me, e per chi mi vuole bene, è stato come se fossi nato una seconda
volta.
Nel mezzo delle cure più pesanti (e prima del
trapianto da donatore) è nato mio figlio e così posso dire di essere venuto al
mondo dopo di lui che adesso ha 15 anni e per me è una specie di fratello
maggiore che mi guida nella vita di tutti i giorni.
E con la sua purezza mi aiuta a difendermi da
tutti i gatti e da tutte le volpi che ci circondano.
Oggi sto bene, nel senso che non c’è più la
malattia, conduco una vita normale e posso fare quasi tutto quello che voglio.
Quasi, perché gli strascichi sono rimasti, mi
affatico più degli altri, il fisico è un po’ più debole di quando giocavo a
pallone tutti i giorni per quattro/cinque ore consecutivamente, il raffreddore
mi dura un mese, le ossa mi fanno male e si fanno sentire ma sono fastidi
decisamente sopportabili considerando che lo posso raccontare.
Racconto anche delle persone che sono state
intorno a me, quelle grandi che mi hanno salvato la vita e quelle minuscole che
invece hanno provato a complicarmela.
Questo testo è una specie di deposizione sulla
vita, sui suoi agguati, sulle sue sfighe ma anche sulle pieghe meravigliose che
ci può riservare. Ma è anche la possibilità di raccontare il mio “dopo” i
periodi di cura e terapia.
Albert Camus disse «tutto quello che so della
vita l’ho imparato dal calcio», da grande appassionato di pallone dovrei essere
d’accordo con lui, ma preferisco parafrasare la sua citazione e dire «molto di
quello che oggi so della vita l’ho imparato dal cancro».
Ho imparato, e ne ho piena consapevolezza, che
possiamo determinare gli eventi sino a un certo punto.
Tutti lottano e molti, purtroppo, smettono di
lottare perché vengono annientati dal cancro.
Chi rimane fregato dalla malattia non sarà mai
un perdente: forse sarà uno sconfitto perché ha lottato sino allo stremo delle
forze ed è stato, alla fine, “solo” più sfortunato.
Non credo che i genitori dei bimbi nelle
pediatrie oncologiche, e i loro piccoli tesori, abbiano mai smesso di
combattere è che, a volte, non possono o non riescono a opporsi a un destino
maledetto.
In definitiva, chi sopravvive non è un vincente,
come certa retorica vorrebbe farlo apparire, ma solo uno con più culo.
La differenza spesso, purtroppo, è tutta lì.
Questo vale per il cancro e per tante cose della
vita, solo che molti non se ne rendono conto e ci spiegano che volere è potere.
Non è vero.
Milano, Luglio 2020
Parte prima
Vita
A.
1.
Tutte le storie hanno un inizio, o almeno un
punto dal quale cominciare.
La mia non fa eccezione.
E, per fortuna, non è ancora finita.
Alce Nero, cui si è ispirato anche il film
Piccolo Grande Uomo, racconta la sua storia ormai vecchio e in una riserva
indiana.
E’ un’esistenza affascinante, fatta di
battaglie, di sacrifici e di un modo di vedere il mondo che era inconcepibile
per l’uomo bianco, affamato di denaro e di potere.
Nella mia storia, lo dico subito, il denaro e il
potere non c’entrano niente.
C’entrano invece le persone che ho incontrato,
sono tante e non so nemmeno se riuscirò a citarle tutte. Ognuna mi ha lasciato
qualcosa.
Ho attraversato un momento drammatico ma oggi ho
la possibilità di raccontare il prima, il durante e, soprattutto, visto il
privilegio che ho avuto, il dopo.
Sono un figlio degli anni sessanta, arrivato
giusto alla fine del baby boom, in un’Italia che sulla scia finale dell’euforia
della ricostruzione si accingeva a entrare negli anni settanta, un decennio
pesante sotto molti punti di vista.
Ero figlio di genitori separati, e in quel
periodo questo, socialmente, era quasi un marchio, una lettera scarlatta
tatuata sulla pelle.
Ma a Milano ci eravamo trovati in tanti in
quella condizione, al punto che, all’asilo, c’era la classe dei “divorziati”.
Erano anni in cui si lottava, per i diritti dei
lavoratori, per i diritti degli studenti, per i diritti civili, il divorzio
appunto, l’aborto, l’emancipazione della donna, il diritto alla casa. Le cose
stavano cambiando.
Anche la scuola stava cambiando, le elementari
le ho frequentate in un ambiente completamente misto in cui stavano insieme i
ricchissimi di certe zone e gli immigrati arrivati dal sud e in quel periodo
erano in molti.
Ognuno aveva le sue abitudini, le sue
specificità.
Le differenze, c’erano, erano evidenti, ma là
dentro, nel delirio di Jesahel,
nessuno ci faceva caso.
Anzi eravamo tutti contenti. Certe distinzioni e
etichette sono arrivate solo successivamente.
Viarasori era il nome con cui era indicata la
scuola (tutto attaccato) regno dei freak, oggi una cosa del genere farebbe
ridere, tanto la gentrificazione ha cambiato lo scenario di quella zona. Allora
c’erano le insegnanti colorate, esuberanti, divertenti, aperte mentalmente -si
accennava addirittura all’educazione sessuale- soprattutto quelle del
pomeriggio (e io ero un praticante del rito del tempo pieno).
Io e la mia famiglia avevamo una vita
complicata, certamente Lucio Dalla non pensava a me quanto ha scolpito il
ritratto di Marco … con sua madre e una sorella,
poca vita, sempre quella..
Però mi ci sono ritrovato in pieno, con
l’aggiunta preziosa della nonna che si prendeva cura di noi.
A scuola, ero bravissimo, dico davvero, e questo
mi consentiva di entrare nella cerchia di coloro per cui la maestra stravedeva,
pur se ero un casinista.
Alle elementari ne ho fatte davvero di tutti i
colori, mi sono rotto il braccio quattro volte, ho battuto la testa per terra
in modo violento, suonavo la campanella fregando il custode, allagavo i bagni,
mi hanno operato di appendicite (naturalmente in peritonite).
Agli esami di quinta mi presentai con il gesso e
fui il primo a essere interrogato.
La mia è stata un'infanzia sempre a metà strada
tra la felicità e i problemi di famiglia. Ma non mi è mai mancato nulla.
I colpi di sfortuna, però, non mancavano di
certo, a dieci anni io e mia sorella fummo investiti da un’auto, lei andò in
coma e io subii un trauma cranico.
Eravamo al mare con la nonna, mia madre ci aveva
lasciato al sicuro ed era andata a trascorrere qualche giorno di vacanza da dei
suoi amici (era molto giovane e molto bella).
Avevamo una voglia matta di diventare grandi e
di essere indipendenti:
-
Nonna, ci
portiamo avanti, cominciamo ad andare in spiaggia
-
Va bene ma fate
attenzione
-
si non ti
preoccupare siamo grandi
-
Fate attenzione
lo stesso
Tempo di uscire dalla pensione, arrivare alla
strada da attraversare e booom, presi in pieno da un'auto guidata da
un’anziana.
Perdevo sangue dal naso, mi accompagnarono in un
negozio a bagnarmi, nel frattempo chiamarono l’ambulanza.
Riuscii a girarmi e vidi mia sorella, era in
terra, immobile in mezzo al sangue.
Avevo dieci anni e il terrore mi assalì. Ero
stato immediatamente consapevole della gravità di quanto era accaduto.
Ci caricarono sulla lettiga, e a sirene spiegate
arrivammo al piccolo ospedale di provincia. Quelli con la cappelletta in mezzo
a un parco, abituati a consigliare i villeggianti su quale protezione solare
utilizzare, a mettere i punti a chi si tagliava sulla spiaggia o a chi veniva
punto dalle meduse. Non certo abituati a trattare commozioni cerebrali e trauma
cranici.
Furono però pronti e attenti alle nostre
esigenze di piccoli pazienti.
Mia nonna fu avvertita, si precipitò e vide me
al pronto soccorso, ma non mia sorella perché la stavano rianimando.
Mia madre rientrò immediatamente e appena mia
sorella percepì la sua presenza, si risvegliò.
La medicina della mamma.
Sono cresciuto insieme a tre donne tutte con un
carattere forte, all’epoca del fatto mia nonna aveva cinquantasette anni (tre
più di me oggi). L’energia femminile scorreva potente in casa nostra.
Furono giorni brutti, ma la porta, la ruota, la
terra, tutto quello che poteva ruotare, cambiò direzione di 180°.
Alla fine di quell’estate mia madre trovò di
nuovo l’affetto e noi un papà e un fratellino in arrivo.
Tutto cambiò in meglio. La negatività era alle
spalle.
Eravamo diventati una famiglia regolare,
allargata ma una famiglia, non c’erano più spiegazioni da dare sul perché c’era
una mamma con due bambini piccoli. Avevamo i nostri alti e bassi, ma stavamo
bene.
Fatte le medie mi sono iscritto a uno dei licei
scientifici più famosi (e fighetti) di Milano, ero nel bacino anche se abitavo
lontano.
In quegli anni cominciavo a frequentare San Siro
da solo per le partite del Milan, anche lì stagioni altalenanti.
Dalla stella alla B. Ma anche per andare ai
concerti: Bob Marley, nel 1980, fu un evento storico, in grado di descrivere un
paio di generazioni tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli ottanta.
Fu, per me, un rito di passaggio dall’infanzia all’adolescenza.
Vita, vita, vita. sono queste le parole che
escono quando parlo con qualcuno dei miei coetanei che hanno condiviso
quell’esperienza.
Gli anni del Liceo sono stati soffertissimi,
sempre al limite della sufficienza, sempre rimandato, bocciato in seconda.
In quarta ho avuto chimica e inglese a
settembre. Chimica e inglese? Si chimica e inglese, che ho dovuto studiare con
un chiodo infilato nel pollice perché ero caduto in motorino e mi avevano
operato.
Male della madonna.
Maturità nel 1985, anno del Live Aid: 37 senza
aggiungere altro.
Eravamo nel mezzo degli anni Ottanta, un
decennio di cambiamento rispetto a quello precedente, mi sono iscritto a
Scienze politiche e intanto a Milano si è passati:
dall’Eskimo al Moncler;
dall’odore dei lacrimogeni a quello delle
essenze;
da Carosello alla pubblicità dell’Amaro
Ramazzotti della Milano da Bere;
dai movimenti collettivi all’individualismo;
dal privato è pubblico al privato è privato;
da Mao a Reagan e Thatcher;
dalla salamella alle pennette, panna, gamberetti
e vodka;
dall’eroina alla cocaina;
dalla Vincenzina alla Barattini Tenti;
dal film di Lizzani “San Babila ore 20” a “Sotto
il vestito niente” dei Vanzina;
dal tabellone della Borsa aggiornato con il
gesso alla Borsa telematica;
dalle grandi industrie al terziario, alla
finanza, ai capitani coraggiosi;
dal Milan due volte in B al Milan due volte
campione d’Europa;
dalle tribune politiche a Nonsolomoda con la
voce fuoricampo;
dal poco trucco al glittering;
dalle radio libere ai network;
dagli operai che leggono Lotta continua agli
operai che leggono il Sole 24 ore;
dal processo a De Gregori, passando per Bob
Marley che “rompe” l’embargo su Milano, alla sera in cui in contemporanea
suonano David Bowie e Peter Gabriel in due luoghi differenti;
dagli omicidi per terrorismo (Tobagi,
Alessandrini etc..) a quello di Roberto D’Alessio (le cronache lo definivano un
playboy dalla bella vita) da parte di Terry Broome;
dalle mozioni al pay off;
dalle luci gialle e i cortei alle discoteche;
dalla ghisa all’effimero;
dalla Notte della Repubblica alla notte di
Madrid con Zoff che alza la coppa per un paese in preda a un’anfetamina
collettiva che ha accorciato la memoria.
Di questi argomenti se ne parlava al corso di
Sociologia di Alberoni.
Mi
ero iscritto a Scienze Politiche, la facoltà che ho adorato, dove mi hanno dato
gli strumenti per capire quello che succede intorno a noi.
Laurea in Sociologia con una tesi sul simbolismo
del cibo, mi sono divertito, molto meglio del liceo.
Qui ho conosciuto il mio amico di una vita.
Non sono mancati il servizio militare e il
lavoretto da universitario (che tanto lavoretto non era) a Il Libraccio per un
sacco di anni.
Vendevo i libri usati a una folla indemoniata
che si metteva in coda all’alba, poi sono stato promosso all’acquisto e ad
avviare altri punti vendita.
Ero uno di quelli che valutava i libri e diceva
questo sì, questo no, per questi ti do tot.
Una negoziazione continua, ho visto almeno due o
tre generazioni di studenti venire a incassare e poi partire per le vacanze
estive.
I maturati scaricavano tutto, inclusi i
dizionari, compreso il Rocci (il vocabolario di greco utilizzato al classico),
non vedevano l’ora di vendersi tutto..
Ho lavorato con i Padri fondatori (Piero,
Silvio, Tico, Edo, Carlo) e anche a loro voglio sempre bene.
Solite domande ai ragazzi e ai genitori:
- nuovi o usati?
- anche il libro di religione?
- mi fai vedere la lista?
- perché vuoi i libri di prima e di seconda? Sei
un bocciato? (eravamo veramente perfidi).
- I dizionari ce li hai, latino, greco, inglese?
sei a posto?
Titoli tutti uguali, con autori uguali,
bisognava conoscere tutto a memoria, anche il colore delle copertine. Le pile
di libri erano dappertutto.
Adesso basta un beep sul codice a barre e sai la
giacenza, l’edizione, in quali scuole adottano il libro etc..
E’ stata un'esperienza splendida.
Calcisticamente ho vissuto il periodo d’oro del
Milan di Sacchi e Capello tre Champions, ho partecipato all’esodo Barcellona,
alla semifinale con il gol di Borgonovo e a due finali perse.
La passione mi ha sempre accompagnato.
I viaggi, le letture, gli amici, gli alti e i
bassi, sapevo bene cosa non volevo, un po’ meno quello che volevo.
Prima di varcare il millennio ho conosciuto mia
moglie.
Amici comuni ci avevano presentato, subito
abbiamo fatto un viaggio negli Stati Uniti viaggiando su tutta la costa Ovest.
Posti magnifici dove ero già stato e in cui sono
voluto tornare con lei.
Il matrimonio fu all’Arena, in uno dei giorni
più caldi dell’anno più caldo (2003).
Nelle telecronache avrebbero detto: tutto molto
bello.
Poi, a un certo punto, qualche mese dopo, è
arrivato quell’ospite di merda dentro la mia testa.
Se fosse una sceneggiatura a questo punto dovrei
scrivere una cosa del tipo:
-
stacco, spazio
nero tre secondi.
-
cambio scena,
asciutta, solo assi di legno, crepuscolo con luce bianca, vuoto.
-
Insomma Beckett
B.
1.
Una mattina di primavera del 2004 in cui mi
preparavo per andare a lavorare mi accorsi di avere un bozzo sulla testa.
Sentivo qualcosa già da qualche settimana quando
mettevo il casco e giravo con il mio vespino.
Il rigonfiamento era centrale, toccando meglio
si sentiva che era duro.
Non avvertivo però né dolore né fastidio.
Pur con questa bolla in testa, continuavo la mia
vita di tutti i giorni.
Una vita piena, ricca di cose belle che mi
stavano accadendo. Chi era intorno a me però un po’ si preoccupava. Prima di
tutti mia moglie e mia madre: fu lei a dirmi di aver parlato con un
neurochirurgo ai giardini.
Si erano incontrati portando a spasso i cani,
durante le chiacchierate da passeggio venne fuori della mia ciste (così l’aveva
battezzata un altro medico).
Il neurochirurgo, per il fatto che uno è medico
sempre anche quando non ha il camice bianco e porta in giro il suo quadrupede,
suggerì di andare a “trovarlo” quando era di guardia in modo che mi potesse
visitare.
L’idea di entrare in un ospedale non mi era
congeniale: avevo quasi trentotto anni e quello era un periodo della mia vita
in cui facevo progetti, pensavo ai viaggi, alla famiglia, al lavoro, al pallone
e un po’ a spaccare il mondo.
Pensieri che, magari, qualcuno avrebbe potuto
definire piccolo borghesi ma che non facevano del male a nessuno.
Ero in vacanza quando ricevetti la chiamata e la
comunicazione dell’orario in cui presentarmi alla visita.
Presi un permesso al lavoro, attraversai Milano,
una Milano riscaldata dall’estate imminente, e andai al pronto soccorso.
Incontrai il dottor C. in una saletta visite.
Era un tipo che sembrava simpatico, con qualche capello bianco sulle tempie,
occhi arzilli.
Niente mi lasciava presagire cosa sarebbe
accaduto nei minuti successivi: da quel momento la mia vita avrebbe subito un
radicale cambiamento, il primo di una serie.
Appena appoggiò le sue preziose mani sulla mia
testa, il neurochirurgo cambiò espressione. Diventò serissimo. Palpò più di una
volta e si rese conto che c’era una scanalatura tra la massa e la teca cranica.
In un primo momento non mi disse nulla, poi accennò a cosa aveva sentito.
-
l’osso del
cranio è stato corroso, il bozzo è qualcosa di serio
-
ah mhhmm eh,
-
ti mando a fare
una tac, questa roba non mi piace
-
uh mmhmm eh
non riuscivo a dire niente.
Gita nel tubo, referto:
-
la massa ha
intaccato la teca cranica, la sta consumando, bisogna rimuoverla al più presto.
In quel momento ho capito il senso dell’eternità
di certi momenti.
-
non
preoccuparti, qui siamo bravi starai dentro solo qualche giorno
-
mah, veramente,
il lavoro, mia moglie, il mio compleanno.
-
dai, dai adesso
vai a casa ti chiamiamo noi.
2.
La risonanza di controllo non mi aveva ancora
fatto cambiare atteggiamento nei confronti della vita di tutti i giorni.
Ero inzuppato di senso del lavoro, un lavoro che
mi piaceva. Mi sono informato per capire quanti giorni sarei dovuto rimanere
lontano dal mio posto di combattimento: quell’attaccamento mi serviva per
esorcizzare la paura.
Non avevo fatto ancora niente e già mi
preoccupavo.
Del resto, «Nessuno vuole morire neppure chi
vuole andare in Paradiso» ha detto Steve Jobs nel famoso discorso a Stanford,
quello di Stay foolish, Stay hungry, di
cui tutti ricordano solo la parte finale.
Pensavo alle vacanze e cercavo di essere sereno
e di essere pronto a festeggiare il mio primo anniversario di matrimonio e il
mio compleanno.
Quell’incontro al pronto soccorso, però, ha
iniziato, da subito, come un tarlo, a battermi nella testa, tanto che nel
percorso di ritorno dall’ospedale a casa non ho guidato granché bene.
Prima di partire ho chiamato Ida e le ho dato le
notizie: non erano buone ma non ancora cattive.
Un’operazione alla testa non poteva essere una
buona notizia.
Stavamo navigando in acque placide e di colpo,
in due ore, ci siamo ritrovati in prossimità delle rapide.
Appena ci siamo visti, senza dire nemmeno una
parola, ci siamo abbracciati. Poi ci siamo detti le cose che si dicono in quei
momenti. Cose che non sono banali se dette da chi ci ama. Ce la faremo, questo
ci siamo detti.
.
Ida ed io eravamo sposati da poco e convivevamo
da qualche anno, ci sentivamo pronti per avere il figlio che desideravamo.
Eravamo pronti a sorridere alla vita, eravamo pronti a tante cose. Tutto ci
sembrava idilliaco, la nostra nuova, luminosa e stupenda (ovviamente il
giudizio è di parte) casa, i giri in vespa, gli amici.
Vivere era di una semplicità familiare, come
certe trattorie con il pergolato, il giardino davanti e il sole che tramonta.
O placidamente rilassante come un caffè al Nephente di Big Sur. E noi lì seduti a
godercelo.
Questo erano quelle settimane e quei mesi per
noi.
3.
La chiamata per la comunicazione della data del
ricovero per l’intervento non tardò ad arrivare. Avevo poco tempo per
organizzarmi, dovevo comprare dei pigiami, delle ciabatte, il portaspazzolino.
Fare quegli acquisti è stato molto triste,
sapevo che sarei dovuto entrare in ospedale e volevo mantenere la mia dignità
di essere umano.
Volevo presentarmi a modo all’appuntamento con
gli sconosciuti che mi avrebbero curato. All’interno dei centri di cura tutti i
pazienti vogliono essere in ordine per mostrare al piccolo mondo della corsia
che si è ancora uomini seppur menomati.
Pochi giorni dopo mi presentai all'accettazione
era il pomeriggio di un giorno di giugno, la mattina ero stato in ufficio.
Avevo con me non una cartella di lavoro ma la
borsa del ricoverato.
La giornata fu tranquilla ma mi è rimasta in
mente la pausa pranzo, la trascorsi insieme a dei colleghi: erano contenti,
ridevano, io non ce la facevo nemmeno a parlare.
Cercavo di non dare peso a quello cui stavo
andando incontro. Tra i vari pareri che sentivo in quei giorni, c’era sempre
quello del superman: che lui l’hanno operato senza anestesia, che ha delle
pillole (scadute) di saggezza spiccia da somministrarti lì sul momento, che non
è niente, che lui una volta è stato morso da un cobra e si è salvato. Così
fighi che Paul Newman, dico Paul Newman, non sarebbe contato nulla a al loro
cospetto.
Storie al limite della fantascienza, queste si
da veri spacconi. Storie che volevano incoraggiarmi e invece erano di
un’inutilità disarmante.
Storie di ego troppo grandi.
Invidiavo però la tranquillità e la leggerezza
di chi le raccontava.
4.
All’ospedale mi accompagnarono mia moglie, mio
fratello e mio papà. Mi salutarono, mi lasciarono lì in borghese, misi il
pigiama e le ciabatte.
E’ bastato quello e da impiegato sono diventato
paziente.
Faceva effetto, niente mi era familiare, non ero
più nella mia tiepida casa.
Mi hanno assegnato letto e armadietto; erano
tutti gentili: quelli della mia stanza, quelli delle altre stanze, infermieri e
medici. Intanto quella notte avrei dormito in un letto con le maniglie, con la
traversina anti diuresi notturna, con il campanello da suonare e di fianco a
qualcuno che non stava tanto bene.
La neurochirurgia aveva la nomea di essere un
reparto tosto: dove si aprono le teste e le si rimettono a posto.
Alla mia teca cranica sarebbe toccato dopo
qualche giorno.
Ero completamente nelle loro mani. Il concetto
di fiducia, che in bocca ai manager (il brand di qua, il brand di là) o ai
politici pareva non avere peso talmente era banalizzato, diventava
fondamentale.
Già, che ne sanno manager e politici di cosa è
veramente la fiducia o la vita, a loro interessano i numeri: dei loro voti, dei
loro stipendi, dei loro profitti.
In quel luogo di cura eravamo tutti uguali senza
differenze di ceto, d’istruzione etc...
Tutti volevamo solo stare meglio.
C’erano i parenti che dormivano sulle sedie
dentro le camere o nelle sale d’aspetto.
L’affetto spingeva le persone a voler star
vicino ai propri cari: costasse quello che costasse.
Aspettavo l’ora delle visite di amici e parenti.
Ero a un piano alto e mi piaceva vedere il sole tramontare.
5.
La preparazione all’intervento prevedeva la
rasata a zero del cranio ma senza parrucchieri di grido; invece dei già
campioni del mondo fratelli Bundy arrivò l’infermiere con la macchinetta e la
mano di chi aveva già fatto migliaia di volte quell’operazione.
Rasata e clisteri, in pochi secondi ero pronto.
Andai a letto, dormivo, non dormivo, mi giravo,
mi rigiravo, il mio vicino russava di bestia. Non saprei nemmeno dire come mi
sentivo, ero stanco. La giornata era stata faticosa, la mattina avevo dovuto
firmare il consenso informato. Il chirurgo mi aveva illustrato l’intervento e
anche le conseguenze che sarebbero potute esserci nel caso qualcosa fosse
andato male: potevo rimanere paralizzato o anche morire.
La paura vibrava dentro di me e aveva una
temperatura bassa.
Quanti sono quelli che conosciamo che hanno
dovuto firmare per la propria vita? I rischi c’erano veramente.
Era tutto nuovo, le frequentazioni precedenti
degli ospedali non mi avevano mai posto di fronte a decisioni così importanti.
Quella era una delle prime, delle tante che
avrei dovuto prendere sul mio futuro, basandomi su percentuali che parlavano di
morte.
Non era semplice, non era come scegliere il tè
al latte o al limone, il caffè normale o macchiato, Diesel o benzina, zucchero
di canna o bianco
La vita e la morte, o anche solo il rischio di
morire, hanno un’identità molto precisa.
Ci ho pensato e ho firmato: non avevo altra
scelta.
Mia moglie, la notte prima dell’intervento era
molto spaventata: per fortuna non era sola. Ci siamo sentiti al telefono, tutti
e due fingevamo all’altro di essere tranquilli. Nessuno sapeva come sarebbe
andata il mattino successivo.
6.
Mi sono svegliato, o forse ero già sveglio, e mi
hanno portato nella camera operatoria.
Chi mi voleva bene era nella sala di attesa. Non
c’era un bell’avvenimento da festeggiare, tutti però speravano che l’operazione
avesse un buon esito.
Incisero, sbucciando la mia testa come se fosse
una pesca, e iniziarono a mettermi le mani sulla teca. Tutto, mi hanno detto, è
durato poco. Il chirurgo è sceso dai parenti, proprio come nei film e telefilm,
e alla piccola platea disse di essere contento per com’era andato l’intervento.
Lui temeva che la massa fosse un cancro e che avesse infiltrato nervi e
cervello e invece non era così. L’aveva comodamente scucchiaiata come un budino
(quella era la consistenza) e poi ha chiuso il buco con una resina speciale
perché le ossa del cranio non riossificano, così oggi ho un tappo proprio nella
parte centrale della testa. Tutto è stato ricucito con 35 punti, la cicatrice
si vede piuttosto bene anche adesso.
Tutto bene quindi?
Tutto bene un cazzo!!!
Stop fermiamo la scena, è in questo momento che
tutto cambia un’altra volta.
Felici perché non era un cancro al cervello si
sentivano tutti più rilassati. A quel punto la mazzata
Il vetrino fatto subito dopo l’asportazione
della massa, una specie di pre-esame istologico, evidenziava una neoplasia del
sangue, ma la conferma la si sarebbe avuta solo qualche giorno dopo con l’esito
della biopsia del tessuto prelevato.
Si Iniziava a parlare di altre verifiche, di
chemioterapia, di radioterapia, tutto però senza ancora una diagnosi precisa.
Io non sapevo niente, non mi dissero subito le cose perché dovevo riprendermi
dall’intervento.
Un’altra mattinata pesantissima in cui ho
iniziato a vivere quello che tante persone non hanno mai affrontato in una
vita, mentre quelle che l’hanno affrontato sanno di cosa sto parlando.
In modo dolce e cercando di togliermi ogni
possibile preoccupazione, mi hanno comunicato la notizia.
Ero a letto con ancora il catetere per fare pipì
e il drenaggio per fare uscire il sangue dalla ferita in testa. Un po’
d’impressione la facevo.
Mi sono svegliato e ho parlato subito. Mi
ricordavo anche il PIN del cellulare.
In mezza giornata da figlio, fratello, marito,
ero diventato ufficialmente un figlio, un fratello, un marito malato di cancro.
Una parola paurosa, acida come certe piogge. Una parola che quando inizia a
frequentarti ti rimane incollata addosso.
Non ero preparato a essere un paziente
oncologico. Nessuno è preparato a colpi così.
7.
Il giorno successivo l’operazione sarebbe stato
il mio compleanno e il regalo che avevo ricevuto non era stato dei migliori.
Divisi tra il magone e i sorrisi chi venne a trovarmi mi fece anche dei
regalini.
Festeggiare è una parola poco frequente in
ospedale, però abbiamo mangiato lo stesso un po’ di torta. Non è stato un bel
modo di compiere i miei 38 anni.
-
ciao Marco
auguri, strano festeggiare in ospedale
-
si strano, sono
stanco
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dai che tra
poco esci
-
mah veramente
non lo so devo fare ancora una montagna di esami
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cosa dicono i
dottori?
-
non ci ho
capito molto, mi diranno.
-
dai, dai,
cazzo!
-
Ok grazie
Dopo qualche giorno è arrivato l’esame
istologico completo, il verdetto preciso era plasmocitoma solitario (cioè il
mieloma in un punto solo). Dopo aver rimosso la massa gli esami migliorarono.
Di quella malattia nessuno di noi sapeva niente,
sapevo solo di dover prolungare la mia permanenza in ospedale. Mi dovevano fare
tutti gli esami previsti dal protocollo: risonanza alla spina dorsale,
radiografie di tutto lo scheletro, esami del sangue specifici e l’esame dell’urina
per verificare la presenza della proteinuria di Bence Jones. Infine la biopsia
osteomidollare (la prima di una lunga serie): si buca l’osso del bacino, si
aspira un po’ di midollo e viene staccato un pezzettino di osso.
Fa male, molto male. Ma poi passa.
Vidi il neurochirurgo, l’ematologo, il
radioterapista, cominciavo a capire che il mieloma era una brutta bestia. Al
momento si decise di non fare nulla e di fidarsi del fatto che la malattia
fosse localizzata in un punto soltanto.
Le stanze della neurochirurgia erano a tre
letti: il ricambio era veloce e mi ricordo alcuni dei compagni che sono
passati, non c’era molta intimità, ognuno appena poteva si alzava e se ne
andava. C’era il leghista duro e puro che lui aveva le vacche e il latte da
mungere
-
quando torno a
casa vado a vedere i vitellini, la mungitura, adesso sto bene
c’era qualcuno che arrivava da lontano e
lavorava in un mattatoio dove ammazzava maiali dalla mattina alla sera,
-
pum pum li devo
ammazzare,
c’era chi è arrivato insieme ai genitori da una
regione lontana. Non sai mai chi puoi incontrare in una camera d’ospedale e a
me, a un certo punto è toccato un pazzo assoluto. Si capiva che aveva problemi
di droga, i medici lo avevano legato al letto perché altrimenti si sarebbe
strappato l’ago della flebo. Dopo due secondi che era nella stanza sento:
-
Come ti chiami?
-
Marco
-
A ciao, senti
Marco, slegami, dai slegami
-
Non credo di
potere
-
Ma dai è tutto
a posto, tranquillo non faccio niente….
-
NON POSSO!
-
Dai slegami,
dammi una sigaretta, ti prometto sto bravo
Era ammiccante, tutto tatuato ma con una sua
dolcezza, si dimenava nel letto e faceva casino. Hanno dovuto spostarmi per
lasciarmi più tranquillo poiché avevo ancora la testa fasciata e lui l’hanno
sicuramente addormentato.
8.
Dopo le dimissioni Una breve vacanza riuscimmo a
concedercela con la preoccupazione del ritorno. Prima di partire però dovevo
ancora portare a termine alcune formalità per la radioterapia: dovevano farmi
il calco della faccia per prepararmi una maschera di plastica con segnati i
punti in cui il raggio avrebbe dovuto colpire.
Passo dopo passo mi stavo ritrovando dentro a un
pozzo senza fine, a ogni nuova visita c’era qualcosa da imparare. Per le
vacanze raggiungemmo dei cari amici in Svizzera, là abbiamo vissuto delle belle
giornate,
Gli esami eseguiti appena rientrato sembravano
alimentare qualche speranza.
Ero entrato in una storia, con tanti personaggi
e un unico finale possibile.
Ero entrato nella mia storia.
9.
Settembre portò l’autunno e con esso la
radioterapia: il turno era la mattina presto. Per circa un mese partivo
all’alba, arrivavo nella stanza della radio, prendevo la mia dose di raggio e
poi andavo al lavoro. Il tragitto era lunghissimo.
La radio non fece alcun effetto se non quello di
farmi cadere i capelli per sempre e di lasciare bene in vista la cicatrice
dell’intervento. Non avevo ancora iniziato la chemio e già li avevo persi:
definitivamente.
Il disegno della zona era perfetto sembrava un
cerchio nel grano, la circonferenza era geometricamente definita.
L’ematologia dell’ospedale dove mi hanno operato
mi seguiva in modo un po’ disordinato, questo lo avrei capito dopo passando in
un altro istituto.
Poche notizie, tanti dottori, ero spaesato.
I medici decisero per la strategia wait and watch (in pratica un
monitoraggio della situazione): il mieloma in molti casi rimane silente e
tollerabile e non è necessario fare per forza qualcosa. Non eravamo tranquilli,
sapevamo che lo scenario sarebbe potuto cambiare, nuovamente, da un momento all’altro.
Decidemmo di avere altri consulti, di capirci di
più. Ogni giorno c’era una scelta da fare senza però conoscenze specifiche, e
lasciamo stare internet e quello che si trova: anche cose giuste ma, senza gli
strumenti adatti, difficili da distinguere dalle cose sbagliate.
Ogni caso è a sé ed è impossibile generalizzare
le esperienze singole. A sembrare sicuro era che l‘incidenza della malattia era
più alta tra le persone anziane. Insomma alla mia età era strano.
Girando, parlando, mobilitando la rete che
avevamo intorno, abbiamo cominciato a sentirci meno soli e così ci siamo messi
in contatto con chi ne sapeva qualcosa più di noi.
La fortuna di vivere a Milano ci ha aiutato, in
questo la mia città mi ha dato un grande contributo.
Andammo da uno specialista del mieloma e
nonostante gli esami andassero bene, non mi lasciò alcuna speranza: la malattia
sarebbe tornata ad aggredirmi.
Quel giorno è stata davvero dura, le giornate
difficili cominciavano a moltiplicarsi.
Un po’ spaventato, forse con un po’ di
vigliaccheria, decisi di continuare le cure nell’ospedale dove ero stato
operato e di non andare in quello dello specialista.
I controlli si fecero radi, a rilento.
Un’altra randellata, questa volta fatale, mi
colpì.
10.
Gli esami del sangue erano a intervalli un po’
troppo larghi, contrariamente a quanto si sarebbe dovuto fare. A ottobre non me
li fecero e giunsi a novembre, ritirai il referto e scoprii da solo il
risultato. Nessun medico mi aveva detto nulla.
Mi trovavo in una panetteria di piazza Cadorna
quando lessi l’ennesima condanna: l’elettroforesi delle siero proteine mostrava
il picco e la componente monoclonale era schizzata. Tutto diventava
tremendamente serio e non ero ancora riuscito a parlare con nessuno di
qualificato.
Avevamo perso del tempo prezioso. Natale si
avvicinava e così tutto era da rimandare a dopo le feste.
A completare il momento terribile, negli stessi
giorni, il papà di mia moglie, cui avevano diagnosticato un tumore al cervello,
stessa neurochirurgia, stesso dottore ma esito purtroppo diverso, era
ricoverato in terapia intensiva.
Il nostro stato d’animo non esisteva più, gli
eventi avevano avuto il sopravvento.
...ke dire Gabriele..commovente...sappiamo quanto può essere difficile e devastante la nostra patologia..sei 1 bella persona..complimenti! ����
RispondiEliminaCiao grazie per il tuo commento che vedo solo ora perché certe funzionalità sul telefono non le vedo.
EliminaUn abbraccio, se vuoi chiedimi l'amicizia su FB.